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Sono nato un giorno d’inverno.
I miei, quando ero piccolo, mi raccontavano sempre che quel giorno l’intero cielo si era riversato sulle loro teste e che fulmini avevano squarciato le nubi. L’apocalisse.
Non so perché, ma ho sempre immaginato di esser venuto al mondo portato in braccia da uno dei quattro cavalieri dell’apocalisse. Pestilenza magari.

Mi rafforzavo con il passare dei giorni, immaginavo le infinite potenzialità che il mio corpo e i miei muscoli potessero offrirmi, flettevo le braccia e immaginavo di librarmi in aria.
Pindarici voli che mi permettevano di staccarmi dall’apocalisse che si era, questa si, effettivamente generata durante la fredda guerra. Immagini in movimento, illusioni. Una fuga premeditata dalla grigia realtà.

Volevo diventare un aviatore, servire il mio paese. A dodici anni iniziai a manifestare un concreto interesse per il volo. Tartassavo i miei con assurde ed esose richieste, dipendevo dall’aria. Non volevo più rimanere ancorato al suolo. Confinato sulla piatta terra. Perché la terra è piatta, non credete a chi vi dice che sia rotonda, una sfera. Tutte fandonie.
Di infinito ci sono soltanto il cielo e lo spazio sovrastante. Sterminate galassie, ammassi di nebulose, stelle, supernove, pianeti, asteroidi. Infinite possibilità.

Avvertivo i cambiamenti nel mio corpo, sentivo un’incessante potenza scorrere nelle mie vene, i miei muscoli erano instancabili, riuscivo a percorrere enormi distanze in poco tempo e senza il minimo sforzo. Sollevavo pesi che un uomo comune non penserebbe nemmeno di poter tangere. Mi sentivo un dio. Sceso in terra insieme ai quattro cavalieri dell’apocalisse in quel freddo giorno d’inverno.

E così mi arruolai nell’esercito. Ed anche lì riuscii ad emergere dalla massa. I miei compagni camerati erano vacue nullità, brandelli di carne ammassata, si affannavano a completare il percorso di allenamento nel minor tempo possibile, e li vedevo raggiungere il traguardo paonazzi, sfiniti. Ed io ero lì ad attenderli, lindo, immacolato. In breve tempo riuscii a fare carriera e già il mio nome correva per le vie della grande capitale.

Non trascorse molto tempo che effettivamente i vertici dell’esercito mi convocarono.
Una missione speciale per un individuo speciale. Avrei affrontato il nemico all’interno del suo territorio. Sarei penetrato nella tana del drago armato soltanto del mio coraggio e di un Remington 870. Si, scelsi un’arma del nemico. Le fabbricavano in maniera migliore e non volevo si verificassero inconvenienti. Più di una volta avevo visto arti dei miei compagni saltar via a causa di un malfunzionamento delle nostre armi.

Era un giorno soleggiato, lo ricordo come fosse ieri, quello in cui partii per la mia missione. Abbracciai forte mio padre e baciai tre volte mia madre sulle guance. Sapevo che probabilmente non li avrei mai più rivisti. Era una missione suicida, ero stato avvisato.
Ma l’orgoglio di poter servire in maniera più che dignitosa la mia nazione, di potermi guadagnare un posto tra i grandi, lì sul momento nella grande piazza, mi spinse ad accettare senza riserve.

Una tragedia. Fallimento.
Non avevo minimamente pensato fossero così organizzati, né tanto meno che sapessero del mio arrivo. Che mi attendessero con le armi spianate. Pronti a distruggermi. Si, perché non sono umano, ormai lo so. Ne prendo atto. Non sono nemmeno vivo. E ciò che non vive non si può uccidere, lo si può soltanto distruggere. Annullare. All’interno del mio petto batte un cuore meccanico, le mie gambe sono di acciaio e le mie mani hanno articolazioni di viti e bulloni. Il mio cranio è composto da scarti di ferro, zinco e ossa di qualche povero disgraziato caduto su un non precisato campo di battaglia.

Ormai so anche che il mio nemico era in realtà la mia stessa nazione, che i miei genitori in realtà erano una coppia di bovari e zappaterra della steppa e che la mia amata nazione, la gloriosa madre Russia mi aveva creato col solo scopo di sperimentare nuove tecnologie da applicare poi sul campo di battaglia. Ne sarebbero stati creati altri simili a me. Altri fratelli di ossa e acciaio, magari privi di un cervello e di una volontà propria. Per i quali non sarebbe stato necessario creare una serie di bugie su cui costruire le loro vuote infanzie. Perché io non sono mai andato in accademia, non ho mai avuto dodici anni, non ho mai chiesto ai miei di entrare nell’aviazione. Non ho mai vissuto.

Sono un blocco di granito vergine, nelle mie precedenti incarnazioni sono stato della carne equina, delle ossa di maiale, dei pilastri dell’alta tensione, delle viti per un giocattolo di qualche bambino viziato e piagnucolone. Sono stanco. Desolato. Irato. Depresso. Non so neanche più se quello che ho davanti sia vero oppure sia un altro refuso del mio indottrinamento originale. E’ una tragedia. Ho ucciso. Li ho uccisi tutti. Non volevo credere a quanto mi stavano dicendo, ma poi ho visto i miei fratelli venire assemblati da altre macchine ed ho dovuto ricredermi. Sono anche io una macchina. Un abozzo di androide e non sarò mai umano. Non sarò mai vivo.

Tanto vale allora farla finita, abbandonarsi all’oblio definitivo. Un colpo secco, deciso.
E via. Ora sì, vedo la luce. Fletto le braccia, sono nel vuoto, nessuno riesce ad afferrarmi.
Il mio chip emozionale esplode in un caleidoscopio di colori e suoni, mi si offusca la vista, tutto è bianco, tutto è tutto e niente al contempo. Immagini affollano la mia mente, ricordi che non ho mai avuto. Sto volando. Mi sento realmente vivo per la prima volta. La carne stride, urla, a contatto con le mie parti metalliche. Ora so che cosa significhi essere realmente uomini. So cosa vuol dire volare, librarsi nell’aria. Essere liberi. Peccato averlo scoperto così, solo ora.

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Dicono le otto del mattino sia l'ora degli illusionisti, dei venditori di sogni. Una sorta di ora magica in cui è concesso solo a pochi eletti prendere in giro il prossimo suo. 

Contrariamente a questo, le undici del mattino è l'ora in cui si sveglia o, per meglio dire, dovrebbe svegliarsi la gente comune. Gli uomini che di buona lena vanno a lavorare e che non hanno il tempo per pensare durante il resto della giornata. Per questo comprano sogni tre ore prima, così da avere qualche chiacchiericcio da scambiare coi colleghi nella pausa pranzo.

Emilé è nato alle tredici, l'ora in cui la gente solitamente tira le cuoia. Suo fratello, Simon, alle nove, l'ora in cui la gente si sveglia per andare in bagno, probabilmente perché la sera prima ha bevuto più del dovuto.

Alle quattordici, di un giorno come tanti altri, ha conosciuto Emily. Venticinque anni e lunghi capelli biondi. Emilé ed Emily, che strana coppia. Mai d'accordo su niente, né sulle cose da fare, né su quale pietanza mangiare. Una vita insieme, a spendere lacrime, soldi ed emozioni. A spargerle al vento, sperado sortissero l'effetto di un boomerang e, tornando indietro, li travolgessero in pieno.

Alle quindici, sei mesi dopo il fidanzamento ufficiale, figlio del bigottismo cristiano, fecero per la prima volta l'amore. Emilé immaginava di farlo sotto il cielo stellato, raggiungere l'orgasmo e soffermarsi a guardare stelle e costellazioni: Sirio, il Piccolo Carro, l'Orsa Maggiore. Invece fu in una vecchia casa colonica, dispersa in un campo di grano. Lontani dallo sguardo paterno, dieci minuti e la verginità era bella che andata.

Un bagno di sangue per lei, uno di rimorsi per lui. Non aveva usato il preservativo, aveva preferito dare ascolto a suo fratello Simon che sosteneva fosse impossibile render gravida una donna durante il suo primo rapporto sessuale. Però il rimorso continuava ad attanagliarlo, una morsa fredda da cui non riusciva ad uscirne. Nonostante il caldo di agosto.

E così Emilé, per distrarsi, aveva passato l'ora successiva al coito a pensare al suo primo giorno di scuola elementare. Ricorda arrivò in classe in ritardo, erano le dieci del mattino, tutti i suoi futuri compagni d'avventure e liti erano già seduti e sorridavano insieme alla maestra. Sua madre lo accompagnò fin dentro alla classe per scusarsi: era colpa sua se avevano fatto tardi. Ricorda che mentre chiacchierava con la maestra, continuava a tenere la mano sinistra poggiata sulla sua spalla. Al momento di andarsene lo abbraccio, ed Emilé rimase da solo ad affrontare gli sguardi dei suoi nuovi, futuri, amici e nemici. Pensò a quel ricordo perché in quel momento provava lo stesso freddo e la stessa angoscia.

Quando le campane del paese fecero intuire che erano giunte le sedici, Emily si rivestì di tutto punto, lo baciò sulla guancia e scappò via. Suo padre sarebbe rientrato a casa di lì a poco, non voleva sospettasse qualcosa. La religione, per Emilé non è mai stata l'oppio dei popoli, è sempre stato quell'ineccepibile dogma da affrontare spensieratamente.

Simon, che era più grande di lui di sei anni, morì un sabato pomeriggio. Contrariamente alle previsioni, dopo una vita spericolata, passata ad imitare James Dean e a rincorrere il sogno americano sempre da lontano, col binocolo, passò a miglior vita mestamente. Lo trovarono riverso nel suo stesso vomito, come le migliori rockstar insegnano, dicono la sera prima avesse bevuto troppo e così, dopo il coma etilico, era arrivata la morte per soffocamento. Subito dopo il risveglio. Chiamarono Emilé e suo padre alle sette del mattino. Che ora del cazzo per comunicare ad una persona la morte del proprio familiare. Queste cose dovrebbero farle solo a tarda mattinata, magari intorno alle dodici, quando tutti sono in pausa pranzo, le sinapsi sono già belle che attive e il cognac non è ancora in circolo nel sangue. E invece no.

Simon aveva trentacinque anni, non lasciava nessuna moglie, nessun figlio, non era mai stato nemmeno figlio dei suoi. Il primo genito era sempre stato Emilé, almeno per il padre, la madre aveva invece voluto bene a tutti e due, in egual misura, ma quello che portava a casa il pane e il companatico non era certo lei. E da buona donna non aveva nemmeno il diritto di voto, figuriamoci se poteva manifestare in pubblico le sue preferenze e le sue volontà.

Così Emilé si trovò da solo ad affrontare il bene di entrambe i genitori e sentì ancora una volta quel freddo gelido, nelle ossa, che lo riportò all'infanzia. Al funerale non venne nessuno degli amici del fratello, nessuno dei parenti, nessuno di nessuno, furono lui, suo padre, sua madre, Emily e il di lei padre, che poverino non si accorse nemmeno di avervi partecipato. Alle diciassette, quasi di proposito, il prete iniziò a celebrare la funzione, alle diciannove Simon era già cibo per i vermi. Alle venti si tenne la veglia funebre. E nonostante non fossero irlandesi, lui e suo padre bevvero come poche altre volte gli capitò di fare, soprattutto insieme. Uniti da una comune volontà. Solo malto, senza ghiaccio, senza toccare cibo, senza smettere di guardarsi negli occhi. Sua madre, invece, piangeva seduta al divano, tra le braccia di Emily.

È strano constatare come, un paio di anni più tardi, nonostante l'età avanzata, Emilé ed Emily decisero di avere un figlio. E un paio di mesi dopo, a settembre, decisero anche di convolare a nozze, tanto per non far parlar male i ben pensanti del paese, che con queste cose sì che ci andavano a nozze. Una cerimonia frugale, celebrata alla stessa ora in cui al fratello era stato accordato il lasciapassare per il regno dei cieli. Ancora una volta pochi invitati. Si sposarono in una chiesetta di campagna, lei indossava una corona di fiori e un abito bianco, delicato; lui un banalissimo abito nero, con tanto di camicia bianca e cravatta nera. Se ci fosse stato qualche invitato lo avrebbe, probabilmente, scambiato per un cameriere. 

Alle diciotto uscirono dalla chiesa, non c'era nessuno a lanciare chicci di riso e confetti, nessuno ad applaudire. Nessuno a cui lanciare il buquet, ma non importava, si erano giurati amore eterno e fedeltà incondizionata.

Non partirono nemmeno per la luna di miele. Emilé volle fare l'amore con lei sotto le stelle e rimanere stesi nudi in un campo di grano. Questa fu la sua unica richiesta. L'unica di un'intera esistenza.

James, lo chiamarono così in onore dell'idolo di suo fratello, nacque a marzo, con l'arrivo della primavera. Emily entrò in sala parto all'una di notte, già sudata e ipertesa. Alle due smise di avere contrazioni e alle tre l'ostetrica pensò si fosse trattato di uno scherzo organizzato dai due, o della volontà della madre di farlo nascere il primo giorno di primavera. Perché tutti sanno che sono le donne a decidere quando dare la luce alla propria creatura, l'uomo può solo aspettare, stringere forte la mano della compagna e sperare lei non faccia altrettanto. Non più del dovuto almeno. Alle quattro in punto, spaccando il secondo, la testa di James fece capolino tra le gambe della madre, che nel contempo era un bagno di sudore e non solo. 

L'ostetrica continuava a ripeterle di respirare con una certa ritmicità, lei non riusciva ad ascoltarla, il respiro era irregolare, scostante. Si affannò molto più del dovuto. Emilé pensò che se ci fosse stato lui al suo posto, sarebbe riuscito sicuramente a seguire delle istruzioni così semplici.

Interminabili minuti di silenzio, alle cinque finalmente il piccolo si decise ad emettere il suo primo vagito. E alle sei Emilé a chiudere per la prima volta gli occhi dopo un'intera nottata. Quando arrivarono i suoi a vedere il nipote, nemmeno se ne accorse, era riverso sulle poltrone della sala d'attesa. Troppo stanco per poter resistere ancora.

Dopo la decima primavera del piccolo, i suoi nonni pensarono che fosse giunto il momento giusto per raggiungere Simon e così, uno dopo l'altro, alle ventuno il primo e alle ventidue il secondo, se ne andarono. Probabilmente il loro ultimo pensiero fu all'ascensione al regno dei cieli. L'ultimo pensiero di suo padre fu sicuramente per Emilé, nonostante stesse per raggiungere l'altro di figlio. Ma che ci volete fare? I padri son fatti così, non sai mai cosa possa succedergli, cosa passi per la loro testa. 

Del resto dicono anche che si è padri una volta sola, non per forza quella del primogenito. Tutte le altre sono dei preservativi bucati o delle distrazioni.

James crebbe sano e forte, voti eccelsi in tutte le materie, bravo nello sport e portato per la fisica. All'università si laureò nei tempi giusti e col massimo dei voti. Era l'orgoglio della famiglia. E a conti fatti la famiglia erano soltanto Emilé ed Emily, nessun altro ormai. Si trasferì nella grande città, diceva per via del lavoro, ma nessuno gli credette mai, probabilmente fu solo per non avvertire il peso della provincia gravare sulle sue spalle.

Trascorse un'altra decade, in cui le visite di James si fecero via via sempre più rade. Emilé trascorreva le giornate in veranda, sorseggiava il vino rosso che lui stesso si era deciso a produrre. In realtà era aceto, ma Emily non ebbe mai il coraggio di dirglielo, preferì sempre sorseggiarlo insieme a lui, sorridendogli. Del resto si erano giurati eterno amore e fedeltà incondizionata quasi cinquant'anni prima, durante quella prima volta nella casa di campagna, non poteva certo infrangere il sogno della sua metà così, come se niente fosse. 

Una delle tante sere, non era diversa dalle altre, non c'era alcun presagio nell'aria, Emily si coricò al solito orario, insieme ad Emilé nel caldo letto matrimoniale, che tanti anni prima avevano voluto più grande del normale, per poter stare più comodi ed abbracciarsi a lungo, senza paura di cadere da un lato o dall'altro. Gli si avvicinò all'orecchio, gli sussurò dolci parole d'amore, lui si accorse piangeva mentre le pronunciava, ma fece finta di dormire, si sentì troppo mortificato per voltarsi e guardarla negli occhi. Solo dopo realizzò che anche lui, in realtà, stava piangendo. In cuor suo sapevo. La mattina seguente Emily non si svegliò, ma lui già lo sapeva. Non versò alcuna lacrima, aveva pianto tutta la notte, rimanendo sempre al suo fianco. James arrivò in ritardo anche al funerale, ma Emilé non gli disse nulla, poggiò una mano sulla sua spalla e si limitò a chinare il capo.

Andarono insieme a casa, lì Emilé lo invitò a bere insieme a lui, in ricordo di sua madre. Solo malto, ancora una volta, ma questa volta non si guardarono negli occhi. Aveva la consapevolezza suo figlio gli nascondesse qualcosa, qualcosa di cui probabilmente si vergognava mortalmente e avrebbe preferito portarsi il segreto nella tomba. Bevvero per tutta la notte, al mattino James dovette far ritorno in città.

Una sera, e qui arriviamo al momento in cui anche Emilé è costretto ad affrontare il trapasso, a chiamare James non fu suo padre, ma il dottore del paese. Erano trascorsi appena quattro anni dalla morte della madre e ora, quello che una volta era un ragazzo brillante, promettente e sincero, si vedeva costretto a dover perdere anche suo padre. James raggiunse la casa paterna alla stessa ora in cui sua madre era morta, questa volta non arrivò in ritardo. Emilé sperava di andarsene alla stessa ora della moglie, ma non ci fu verso, il cuore continuò a lottare di sua sponte. Se ne andò a mezzanotte, in silenzio. Chiuse i denti, sorrise a suo figlio e gli disse di sorridere alla vita e di esser forte, cattivo e spietato, di non piegarsi al volere di nessuno. Non seppe mai dell'omosessualità di James, il segreto il pargolo riuscì davvero a portarselo nella tomba. Non lo seppe mai nessuno.

Dicono nel momento del trapasso si riveda davanti agli occhi l'intera esistenza, Emilé invece si ritrovò ancora una volta in prima elementare. Sentì ancora una volta freddo, fin dentro le ossa, ma non se ne curò, non durante quell'ultima volta.

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Suo padre fa il calzolaio, ripara scarpe da una vita, una suola dopo l’altra. Tutto per pagargli un’istruzione, per farlo diventare un uomo importante. Sostanzialmente un uomo.
Di quelli veri, con addosso un abito elegante anche quando cucinano la carne la domenica o vanno in spiaggia sotto il sole d’Agosto. Un manichino imbellettato e servo del suo mestiere, che a lui il bombarolo del Faber non ha insegnato proprio nulla. Lui se ne frega, fuma il suo spinello quotidiano, si perde nei di lei capelli, ne accarezza le chiome violacee. Anacronistiche, quasi ucroniche. Allo studio ci pensa raramente, le sue attenzioni sono tutte per un paio di curve, per quella fraschetta della domenica all’ora di pranzo. Un bicchiere di vino e tanta felicità. Suo padre perde la vista per inseguire chiodi troppo curvi o che di curvarsi non ne voglion proprio sapere e cerca di non ascoltare sua moglie quando gli dice che suo figlio è uno scapestrato, che non farà mai strada, che dovrebbe dedicarsi maggiormente alla piccolina, lei si che promette bene. Lui si tappa le orecchie per non sentirla ciarlare. Crede ciecamente in suo figlio, diverrà un uomo vero. Importante. Lui al diciassettesimo compleanno decide di lasciare il nido, andrà a cercare fortuna in giro per il mondo, con la sua arte, con la sua inventiva precaria, da figlio della gleba che guarda alla borghesia, ma non passano nemmeno tre mesi che si ritrova ad esprimere la sua arte sotto un ponte, cantando storie di uomini erranti, di luoghi incantati e viaggi immaginari fatti di costellazioni, universi paralleli e trip lisergici. Il tutto con una chitarra a quattro corde, che suona come un basso senza amplificatore, per dieci centesimi di euro e uno sguardo dolce, per un pasto caldo, ma anche freddo. E per poter tornare da suo padre e dirgli che aveva torto e che, invece, sua madre aveva ragione, non sarebbe diventato mai un uomo, di quelli importanti. Suo padre ha smesso di lavorare, passa le giornata nel parco vicino casa, esce la mattina alle sette e porta con sé una busta di pane grattugiato e un giornale del mese prima, che le notizie brutte e meglio apprenderle il più tardi possibile. Ripone fiducia nei colombi che nutre costantemente e amorevolmente,  quotidianamente, quasi fossero figli da crescere, da ammirare. In cui riporre fiducia incondizionata. Torna alla sera, mesto e senza una briciola di pane, la moglie gli chiede se ripensi mai a suo figlio e lui le risponde che starà sicuramente bene, sarà diventato un artista importante e si vergognerà delle sue umili origini e della sua famiglia da quattro chiodi e una suola di cuoio duro. Piove e quel ponte non è poi quel locus amoenus che narrava sempre nelle sue storie. Prova a  immaginare che faccia abbia ora sua sorella, dopo dieci anni, se frequenti qualcuno e se suo padre la lasci uscire liberamente o le imponga un qualche coprifuoco. E’ il 23 Luglio, da qualche parte un bambino emette il suo primo vagito, Andrew Cunanan pensa bene di togliersi la vita in una house-boat, dopo aver compiuto una strage a colpi di martello e calibro .40 e lui sta steso sull’erba, la sua chitarra da quattro corde è diventata un borsone rigido. Conta le poche nuvole sparse nel cielo di mezz’estate, pensando a Shakespeare e al tempo perso, accarezza la sua barba che del rossore di una volta ne conserva soltanto un vago ricordo, impasta la saliva con una foglia di tabacco e quando sente un tintinnio nella sua ciotola di latta alza lo sguardo. E vede un uomo anziano in impermeabile e cappello, vorrebbe tanto stringerlo a sé e dirgli una miriade di cose, ma quella timida figura si limita a sorridergli, quasi inebetita, e ritorna sui suoi passi, con in mano una busta di pane grattugiato piena fino a metà. Solo allora lui trova il coraggio di parlare, gli chiede se abbia una famiglia, il vecchio sistema bene gli occhiali e lo guarda dritto negli occhi. Stanno tutti bene, gli dice, poi torna sui suoi passi.
Quella sera suo padre torna a casa col sorriso, abbraccia sua moglie e la bacia come non faceva da anni. Quella sera lui torna sotto il suo caro ponte, chiude gli occhi e sogna di essere un importante uomo d’affari. Un uomo, in sostanza.

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Dicono che lui ed Hemingway, in un certo senso, siano nati insieme. Lui ha sempre tenuto a precisare che quando Hemingway iniziò a scrivere, lui iniziò a succhiare i capezzoli di sua madre. Nessuno ha mai riso alle sue battute. 
Settant'anni dopo. Ernest è già morto da un pezzo, si è sparato un colpo in fronte una mattina di luglio, probabilmente non riusciva a reggere il caldo torrido di Ketchum, lui, invece, ogni mattina si sveglia presto, una sigaretta, caffè corretto con latte e una fetta biscottata al grano integrale. Tonifica l'organismo e lentamente, un giorno dopo l'altro, occlude le sue vene. Quando era piccolo rimase affascinato dalla figura di Napoleone Bonaparte, la maestra gli ripeteva sempre che era morto da poco più di un secolo, era ancora storia recente e dovevano ammirare un così grande uomo, capace di sottometere al suo volere l'intera Europa. Gli parlava sempre anche di un altro grande uomo, che su di lui aveva scritto una bella poesia, un'ode, ma non è mai riuscito a ricordarsene il nome. Pensò che probabilmente fosse quel signore sulla quarantina che ogni giorno veniva a prendere la maestra all'uscita da scuola e che con fare dignitoso e abiti d'altri tempi la accompagnava fino alla macchina e l'aiutava a salirvi. Miller, questo è il nome del nostro uomo, del nostro vecchio, dopo aver fatto colazione guarda sempre la televisione: qualche format di scarso interesse culturale, in attesa che si sveglino i suoi compari d'avventure quotidiane sul verde manto. Ma non ricorda mai, fino all'ora di pranzo, quando la bella Betsy lo aiuta a prendere le sue pillole, che i suoi amici non ci sono più da tempo. Ah, la demenza senile, dicono sia alzheimer, lui dice che è solo un po' stanco e ogni tanto si dimentica le cose, niente di grave. Come quella volta in cui si avventurò verso l'ospizio dove era alloggiata la sua Mary, salvo ricordarsi a metà del cammino che la sua Mary non c'era più da dieci anni. Ormai era tardi per voltarsi, decise che era buona idea prendere una tazza di caffè e una ciambella. Di quelle con sopra la glassa al cioccolato, però. Nonostante il diabete, nonostante tutto, ogni tanto poteva anche premiarsi, soprattutto per lo sforzo mnemonico compiuto. I due poliziotti che quella mattina percorrevano l'Interstate 65 non vollero sentire ragioni, lo riportarono immediatamente a casa. Betsy era arrivata quaranta minuti e non trovandolo si era preoccupata. Una lunga, quasi interminabile digressione, per tornare poi al momento in cui Miller si decide ad aprire la valvola del gas. Betsy non è ancora arrivata, mancano due ore al suo arrivo, ha tutto il tempo di fare un bagno caldo prima che arrivi quella stronza. Lui la odia, sta sempre a toccarlo, a mettergli le mani addosso: -Signor Miller, si sieda. Signor Miller, beva un po' della sua tisana. Signor Miller, è pronto in tavola. Signor Miller, le sue pillole.
Signor Miller, signor Miller, signor Miller. Vaffanculo al signor Miller. E vaffanculo pure tu Betsy, hai quarantatre anni, trovati un uomo, va bene anche un boscaiolo dal cuore di legno e le mani di ferro, basta che tu la smetta di passare le notti da sola. E così Miller, l'apposizione la risparmiamo, raggiunge la camera da letto e poggia sulla cassettiera una banconota da 100 dollari, il suo orologio da taschino e dei finti occhiali da lettura (li ha sempre adorati). Poi raggiunge il bagno, mentre la vasca si riempie di acqua calda lui inizia a denudarsi. Via la camicia di flanella beige, via i pantaloni marroni, via i mocassini. Via anche la canottiera e le calze. Prima di toglier via anche i calzoni, Miller si guarda un'ultima volta allo specchio, si accarezza il viso, pensa alla sua Mary, cinquant'anni prima, spera in un ultimo sussulto del suo membro, ma non c'è niente da fare. Così toglie vie anche quelli e si immerge nella vasca. L'acqua è calda al punto giusto, versa del bagnoschiuma e va giù fino al collo.
"Signor Miller?! Signor Miller?! C'è uno strano odore, Signor Miller, ha per caso provato a cucinare?"
Ma Miller non risponde, è immerso nella vasca. Dorme. Betsy lo trova in bagno, pensa abbia avuto un attacco di cuore e mentre con una mano si tappa il naso, perché non ha ancora avuto il tempo di aprire le finestre da quando è entrata, con l'altra lo tocca sulla spalla destra.
Miller si risveglia, la guarda dritta negli occhi, lei si dirige verso la finestra, subito di fianco alla vasca, lui estrae il braccio sinistro dall'acqua e la ferma: -Betsy, tesoro, mi presteresti l'accendino?
Lei fa spallucce, lui poggia la sigaretta alle labbra e accende. Più niente.
In tv, quella sera, al telegiornale locale parlano di uno sfortunato incidente che ha ucciso Miller Edmonds, di anni settantuno, e Betsy Hall, di anni quarantatre.
Quella stessa sera, un paio d'ore più tardi, un giovane musicista di appena ventitre anni, David Campbell, da tutti conosciuto soltanto come Beck, dedica al signor Miller il suo primo concerto.
E inizia con Fucked up blues.

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“Che differenza c’è tra un uomo e una donna?”
“L’uomo è quello che porta a casa il pane, la donna è quella che lo mette in tavola affettato.”
Ogni loro conversazione iniziava sempre con dialoghi minimali, così sciocchi.
Si guardavano per un paio di minuti, scrutando l’uno le pupille dell’altro, alla ricerca di un’indecisione e poi, quando la notavano, trovavano il coraggio per parlare e rompere il ghiaccio.
“Una giornata bella dura di più di una brutta?”
“Dipende, se quella bella è piena di momenti indimenticabili allora dura di meno, se invece la consideri bella soltanto per un singolo avvenimento allora avrà la stessa durata di una giornata brutta. A meno che la giornata brutta non sia costituita da una serie di avvenimenti indimenticabilmente brutti. E in quel caso la giornata brutta durerebbe molto di più.”
“Forse forse hai ragione sai?!”
Il loro rapporto era particolare, quello che sapevano con certezza era che semplicemente stavano bene insieme.
Semplicemente, era già un gran passo avanti rispetto alla media. Ma si guardavano bene dall’esternarlo troppo.
Era strano vederli l’uno senza l’altro e succedeva raramente, molto spesso perché uno dei due era impossibilitato ad uscire.
Non c’era mai una sola pinta di birra sul bancone. O due o nessuna.
“La palingenetica rappresentazione dell’io, per te, può convivere con l’idea platonica della filosofia?”
“E certo, pensa che Platone è stato allievo di Socrate, e già questo la dice lunga, se poi ci aggiungiamo il fatto che è uno dei più importanti pensatori di tutti i tempi se ne deduce che la sua idea deve per forza di cose essere in accordo con quella data rappresentazione dell’io”.
Lui era strano, non era raro vederlo vestito con un qualche pantalone kitsch o una maglia troppo scollata, l’altro era invece più casto, pacato, sensibile. Pensieri diversi convergevano in unico desiderio.
“Mi ami?”
“Dipende...”

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L'8 agosto 1967 si celebra il primo volo del Boeing 737-100. Due anni dopo, nel 1969, i quattro di Liverpool pensano sia cosa buona e giusta farsi fotografare mentre attraversano Abbey Road. Altri cinque anni, è il 1974, Richard Nixon, così come lo racconta anche Forrest Gump, lascia la Casa Bianca per via dello scandalo Watergate.
La storia del volo, pindarico, fisico, reale, immaginario. All'atterraggio il responsabile della cabina, Ivan, informa i passeggeri che è severamente vietato slacciare le cinture fino a quando il capitano, José, spagnolo, trentacinque anni e poca conoscenza dell'italiano, non avrà dato l'apposito segnale. Ma il clangore delle cinture metalliche che si slacciano, verso la tanto agognata libertà, è inevitabile, quasi ancor prima che il carrello si sia aperto. A tutti piace provare il brivido di contravvenire una regola così semplice, banale. Superman dice che, statisticamente, volare è il modo più sicuro per viaggiare. Lui lo fa dal 1938 (per gli italiani dall'anno seguente, «Gli albi dell'Audacia», proprio come lo è il volo). Sono le 19.45, sulla pista d'atterraggio un Boeing 737-800 sta effettuando le operazioni di rullaggio, le winglet dicono gli servano ad avere una maggiore aereodinamicità, il muso allungato è figlio dello zio Sam, che non voleva un velivolo schiacciato, quasi fosse un Airbus. Del resto, sempre negli anni Sessanta, Frank William Abagnale, truffava la Pan Am, saliva a bordo di un altro Boeing, un 747, e fingeva di essere un assistente di volo, importunava studentesse, hostess e malati di mente. E all'America i truffatori non piacciono, loro, che sulla truffa, sui sogni, sui voli pindarici, hanno costruito un'intera nazione. Generazioni di immigrati messicani, filippini, italiani, in volo sulle loro navi, alla ricerca di un qualcosa di indefinito.
Sono le 15.00, questa volta è un Airbus, un a319, a prepararsi per il decollo. 150 anime che aspettano di salire a trentamila piedi, nella speranza di vedere il mare, o un mare di nuvole, a seconda dei desideri. Al check-in informano che non è più possibile portare bagagli a mano in cabina, ma Gianni non ci sta, inizia a protestare in un milanese figlio del Cavaliere, lui ha portato meno vestiti, meno vibratori e meno paia di manette, proprio per poter usare il solo bagaglio a mano. La ragazza dell'accettazione gli sorride cortesemente, forzatamente. Lui la manda a fanculo, si avvia verso l'aereo senza curarsi di nulla. La ragazza, sempre sorridendo, prende la ricetrasmittente: -Carla, sta arrivando un uomo sulla trentina, porta una polo nera, gli occhiali da sole sulla testa e un bermuda bianco. Vuole caricare il bagaglio a mano a bordo, impediteglielo. Inizia a piovere, siamo tutti fuori, Gianni sembra voglia assolutamente conquistare la pole, si smarca prima a destra e poi a sinistra, sorpassa non si sa quanti corpi inerti, si affianca ad un gruppo di tedeschi, si spera fossero tedeschi, e con fare deciso sale le scale. Ryan, il primo assistente di volo, lo saluta cortesemente e lo invita a prendere posto. Lui sorride a sua volta, posiziona il bagaglio a mano, la sua Samsonite nera, satinata, nella cappelliera, richiude lo sportello e allaccia le cinture. Pochi minuti dopo riesco a sedermi, proprio in corrispondenza dell'uscita di sicurezza, alla mia destra una coppia che non ha mai preso un aereo in vita sua. Lei è curiosa, tocca tutto, parla in continuazione ed è indecisa se acquistare qualcosa da mangiare, leggere o mettersi a dormire. Io vorrei accarezzarle la mascella con le nocche. Poi inizia a sfogliare il giornale di bordo: -Ma è tutto in inglese! Che vuol dire lamb? E pudding? Ma sono ricette turche, uffa!
Lui le risponde pazientemente: -Lamb, amore, vuol dire agnello. Il pudding è tipo un budino, solo che è fatto di latte e altro. È una cosa strana. Hai fame?
E lei, contenta per quella spiegazione minimale, quasi scontata, afferma di sì. Iniziano le operazioni di rullaggio, lei incomincia a tremare insieme alla fusoliera, mantengono lo stesso ritmo, studia certosinamente il depliant con le operazioni da eseguire in caso di atterraggio di emergenza, ignara del fatto che difficilmente sopravviverebbe, del resto lo ha scritto anche Chuck.
L'aereo decolla, lei si calma, prova a dormire, lui l'abbraccia, nonostante il caldo infernale, lei sorride ancora di più, mostrando una dentatura di cui probabilmente non si è mai presa cura. Si risvegliano entrambe mentre l'aereo sorvola il golfo di Napoli, lei si protende verso il finestrino, noncurante della mia presenza, guarda il mare dall'alto, come se fosse la prima volta che vede l'acqua trascinarsi lungo la riva e chiede con fare curioso: -Secondo te cosa sono tutte quelle lucine sull'acqua?
Lui la guarda dritta negli occhi, prima la bacia delicatamente sul labbro superiore, poi le ravviva i capelli e le dice: -Quello è il riflesso dei tuoi occhi, amore mio.
Lo sentono tutti, la cinquantenne della fila dietro scoppia a ridere, c'è chi spera che dopo una frase così melensa l'aereo precipiti in mare.
Ma tutto fila liscio, Ryan informa che sono iniziate le operazioni per l'atterraggio. E dieci minuti dopo il mare, le lucine e gli attentati sono solo un vago ricordo. Marco ed Elisa, così si chiamano i due, sono indecisi sul da farsi, se scendere subito dall'aereo o attendere escano tutti. Mi ignorano, io sono seduto al loro fianco, bloccato dai loro corpi fuori formato standard, con un'insana voglia di fumare. E fumare ancora.
Mi affaccio dall'oblo dell'aeromobile, quasi fossi un profugo in fuga, e vedo Gianni allontanarsi verso l'area degli arrivi, fregandosene della navetta che lo avrebbe portato lì. Stringe con la mano destra il suo trolley. Probabilmente sorride.
Marco ed Elisa sono ancora lì, stanno scattando foto alla pista d'atterraggio, foto a loro stessi. La loro vacanza è un'esperienza al di fuori del comune, un'esperienza come poche altre. A metà strada tra un volo ad alta quota e un toast con formaggio e prosciutto.

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"Ti amo” sta scritto in uno di quei cuori di peluche appesi al vetro posteriore, la macchina è una vecchia punto di un bordeaux metalizzato che è tutto un programma, l’alettone sporgente e gli spoiler modificati servono a calarsi nella parte.
Non si ferma mai con il giallo né, tanto meno, con il rosso, sempre di corsa, un metro dopo l’altro. Attraversa il viale alberato da mille palazzi di forme differenti e raggiunge la piazza al centro, la circumnaviga e scompare all’orizzonte, lasciando dietro di sé una scia di fumo e rose, un paio di insulti e tanta rabbia, ma non le importa.

Lei, Sara, ha trentacinque anni, tre figli a carico e due canarini, all’inizio erano tre, proprio come i figli, ma uno fu talmente saggio da farsi mangiare da un gatto ad un mese dall’acquisto.
Lui, Adriano, l’ha lasciata quando di anni ne aveva ventinove, probabilmente per una brasiliana, nessuno lo seppe mai con certezza.
In ogni caso lei non lo ha mai amato, le piaceva soltanto andarci a letto, in quello era davvero bravo.
Lei ha due gemelli di dieci anni, Cesare e Augusto, nomi importanti per due bambini viziati, e un altro figlio, Giacomo, di dodici. Tra di loro non parlano mai, nemmeno i gemelli. Cosa strana.
La radio della punto è sempre spenta, ogni tanto l’accende, solo per ascoltare qualche vecchia musicassetta in cui Ornella Vanoni le dice che c’è una ragione di più per andare avanti.
“Ti amo”, quel cuore penzola inesorabile e alla ventosa ha sostituito della colla, al brivido della carne quello per la velocità.
Lui sogna pareti grigio antracite, finestre trapezoidali e colonnati dorici, lei ascolta Caterina Caselli, le ricorda tanto il suo uomo e tutte le volte che s’incontravano, anche soltanto per un quarto d’ora di passione. Di follia.
Lei sfreccia veloce, la tangenziale è un vago ricordo, tre chilometri che passano via in un attimo, suo figlio, quello grande, le tira i capelli e continua a urlare, vorrebbe un frullato alla fragola, ma non ha il coraggio di chiederlo a sua madre, che per tutta risposta lo lascia a scuola e sfreccia via. “Freccia rossa” la chiamano i compagni di suo figlio, sembra quasi il nome di un modellino di aereo, che gli aerei veri nessuno si sognerebbe di chiamarli con questo nome.

Lui non dorme, non pensa, è rimasto solo, sogna una prigione da cui evadere facilmente, un lago di lacrime dolci in cui immergersi al mattino e uscirne la sera. Sogna una ballerina brasiliana, dai fianchi larghi e accoglienti.
Giacomo, che di suo padre non ha il minimo ricordo, pensa che sia giusto riceva quel frullato alla fragola, del resto è il suo compleanno e la madre non si è nemmeno ricordata di fargli gli auguri, ma va’ sempre di fretta, la giustifica così, proprio come i gemelli, quindi le invia un sms, con quel cellulare ottenuto per grazia ricevuta dopo mille piagnistei.

Quando Sara riceve il messaggio sta raggiungendo a poco più di cento all’ora un incrocio a tre corsie, prende in mano il cellulare, un Nokia antidiluviano, e invece di leggere il testo lo sguardo le cade sulla macchina alla sua sinistra, Adriano sfreccia altrettanto veloce, ma nel senso opposto. E’ un gioco di sguardi di un attimo lungo una vita, lei vorrebbe maledirlo, baciarlo, lui vorrebbe girare lo sguardo dall’altro lato, ma non ci riesce. Poi soltanto il tonfo sordo e della punto bordeaux ne rimane un vago ricordo. Il cuore di peluche continua a penzolare, proprio come la testa di Sara in questo preciso momento."Ti amo".

Il messaggio recitava “Mammina mi compri un frullato alla fragola? Ti voglio bene, Giacomo”, quello stesso giorno Giacomo, come ogni anno, ricevette l’ennesimo messaggio anonimo, un formale “Auguri” e per una volta sperò fosse suo padre ad averglielo scritto. Un gioco di sentimenti mal riposti e mai ricambiati.

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