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Dicono le otto del mattino sia l'ora degli illusionisti, dei venditori di sogni. Una sorta di ora magica in cui è concesso solo a pochi eletti prendere in giro il prossimo suo. 

Contrariamente a questo, le undici del mattino è l'ora in cui si sveglia o, per meglio dire, dovrebbe svegliarsi la gente comune. Gli uomini che di buona lena vanno a lavorare e che non hanno il tempo per pensare durante il resto della giornata. Per questo comprano sogni tre ore prima, così da avere qualche chiacchiericcio da scambiare coi colleghi nella pausa pranzo.

Emilé è nato alle tredici, l'ora in cui la gente solitamente tira le cuoia. Suo fratello, Simon, alle nove, l'ora in cui la gente si sveglia per andare in bagno, probabilmente perché la sera prima ha bevuto più del dovuto.

Alle quattordici, di un giorno come tanti altri, ha conosciuto Emily. Venticinque anni e lunghi capelli biondi. Emilé ed Emily, che strana coppia. Mai d'accordo su niente, né sulle cose da fare, né su quale pietanza mangiare. Una vita insieme, a spendere lacrime, soldi ed emozioni. A spargerle al vento, sperado sortissero l'effetto di un boomerang e, tornando indietro, li travolgessero in pieno.

Alle quindici, sei mesi dopo il fidanzamento ufficiale, figlio del bigottismo cristiano, fecero per la prima volta l'amore. Emilé immaginava di farlo sotto il cielo stellato, raggiungere l'orgasmo e soffermarsi a guardare stelle e costellazioni: Sirio, il Piccolo Carro, l'Orsa Maggiore. Invece fu in una vecchia casa colonica, dispersa in un campo di grano. Lontani dallo sguardo paterno, dieci minuti e la verginità era bella che andata.

Un bagno di sangue per lei, uno di rimorsi per lui. Non aveva usato il preservativo, aveva preferito dare ascolto a suo fratello Simon che sosteneva fosse impossibile render gravida una donna durante il suo primo rapporto sessuale. Però il rimorso continuava ad attanagliarlo, una morsa fredda da cui non riusciva ad uscirne. Nonostante il caldo di agosto.

E così Emilé, per distrarsi, aveva passato l'ora successiva al coito a pensare al suo primo giorno di scuola elementare. Ricorda arrivò in classe in ritardo, erano le dieci del mattino, tutti i suoi futuri compagni d'avventure e liti erano già seduti e sorridavano insieme alla maestra. Sua madre lo accompagnò fin dentro alla classe per scusarsi: era colpa sua se avevano fatto tardi. Ricorda che mentre chiacchierava con la maestra, continuava a tenere la mano sinistra poggiata sulla sua spalla. Al momento di andarsene lo abbraccio, ed Emilé rimase da solo ad affrontare gli sguardi dei suoi nuovi, futuri, amici e nemici. Pensò a quel ricordo perché in quel momento provava lo stesso freddo e la stessa angoscia.

Quando le campane del paese fecero intuire che erano giunte le sedici, Emily si rivestì di tutto punto, lo baciò sulla guancia e scappò via. Suo padre sarebbe rientrato a casa di lì a poco, non voleva sospettasse qualcosa. La religione, per Emilé non è mai stata l'oppio dei popoli, è sempre stato quell'ineccepibile dogma da affrontare spensieratamente.

Simon, che era più grande di lui di sei anni, morì un sabato pomeriggio. Contrariamente alle previsioni, dopo una vita spericolata, passata ad imitare James Dean e a rincorrere il sogno americano sempre da lontano, col binocolo, passò a miglior vita mestamente. Lo trovarono riverso nel suo stesso vomito, come le migliori rockstar insegnano, dicono la sera prima avesse bevuto troppo e così, dopo il coma etilico, era arrivata la morte per soffocamento. Subito dopo il risveglio. Chiamarono Emilé e suo padre alle sette del mattino. Che ora del cazzo per comunicare ad una persona la morte del proprio familiare. Queste cose dovrebbero farle solo a tarda mattinata, magari intorno alle dodici, quando tutti sono in pausa pranzo, le sinapsi sono già belle che attive e il cognac non è ancora in circolo nel sangue. E invece no.

Simon aveva trentacinque anni, non lasciava nessuna moglie, nessun figlio, non era mai stato nemmeno figlio dei suoi. Il primo genito era sempre stato Emilé, almeno per il padre, la madre aveva invece voluto bene a tutti e due, in egual misura, ma quello che portava a casa il pane e il companatico non era certo lei. E da buona donna non aveva nemmeno il diritto di voto, figuriamoci se poteva manifestare in pubblico le sue preferenze e le sue volontà.

Così Emilé si trovò da solo ad affrontare il bene di entrambe i genitori e sentì ancora una volta quel freddo gelido, nelle ossa, che lo riportò all'infanzia. Al funerale non venne nessuno degli amici del fratello, nessuno dei parenti, nessuno di nessuno, furono lui, suo padre, sua madre, Emily e il di lei padre, che poverino non si accorse nemmeno di avervi partecipato. Alle diciassette, quasi di proposito, il prete iniziò a celebrare la funzione, alle diciannove Simon era già cibo per i vermi. Alle venti si tenne la veglia funebre. E nonostante non fossero irlandesi, lui e suo padre bevvero come poche altre volte gli capitò di fare, soprattutto insieme. Uniti da una comune volontà. Solo malto, senza ghiaccio, senza toccare cibo, senza smettere di guardarsi negli occhi. Sua madre, invece, piangeva seduta al divano, tra le braccia di Emily.

È strano constatare come, un paio di anni più tardi, nonostante l'età avanzata, Emilé ed Emily decisero di avere un figlio. E un paio di mesi dopo, a settembre, decisero anche di convolare a nozze, tanto per non far parlar male i ben pensanti del paese, che con queste cose sì che ci andavano a nozze. Una cerimonia frugale, celebrata alla stessa ora in cui al fratello era stato accordato il lasciapassare per il regno dei cieli. Ancora una volta pochi invitati. Si sposarono in una chiesetta di campagna, lei indossava una corona di fiori e un abito bianco, delicato; lui un banalissimo abito nero, con tanto di camicia bianca e cravatta nera. Se ci fosse stato qualche invitato lo avrebbe, probabilmente, scambiato per un cameriere. 

Alle diciotto uscirono dalla chiesa, non c'era nessuno a lanciare chicci di riso e confetti, nessuno ad applaudire. Nessuno a cui lanciare il buquet, ma non importava, si erano giurati amore eterno e fedeltà incondizionata.

Non partirono nemmeno per la luna di miele. Emilé volle fare l'amore con lei sotto le stelle e rimanere stesi nudi in un campo di grano. Questa fu la sua unica richiesta. L'unica di un'intera esistenza.

James, lo chiamarono così in onore dell'idolo di suo fratello, nacque a marzo, con l'arrivo della primavera. Emily entrò in sala parto all'una di notte, già sudata e ipertesa. Alle due smise di avere contrazioni e alle tre l'ostetrica pensò si fosse trattato di uno scherzo organizzato dai due, o della volontà della madre di farlo nascere il primo giorno di primavera. Perché tutti sanno che sono le donne a decidere quando dare la luce alla propria creatura, l'uomo può solo aspettare, stringere forte la mano della compagna e sperare lei non faccia altrettanto. Non più del dovuto almeno. Alle quattro in punto, spaccando il secondo, la testa di James fece capolino tra le gambe della madre, che nel contempo era un bagno di sudore e non solo. 

L'ostetrica continuava a ripeterle di respirare con una certa ritmicità, lei non riusciva ad ascoltarla, il respiro era irregolare, scostante. Si affannò molto più del dovuto. Emilé pensò che se ci fosse stato lui al suo posto, sarebbe riuscito sicuramente a seguire delle istruzioni così semplici.

Interminabili minuti di silenzio, alle cinque finalmente il piccolo si decise ad emettere il suo primo vagito. E alle sei Emilé a chiudere per la prima volta gli occhi dopo un'intera nottata. Quando arrivarono i suoi a vedere il nipote, nemmeno se ne accorse, era riverso sulle poltrone della sala d'attesa. Troppo stanco per poter resistere ancora.

Dopo la decima primavera del piccolo, i suoi nonni pensarono che fosse giunto il momento giusto per raggiungere Simon e così, uno dopo l'altro, alle ventuno il primo e alle ventidue il secondo, se ne andarono. Probabilmente il loro ultimo pensiero fu all'ascensione al regno dei cieli. L'ultimo pensiero di suo padre fu sicuramente per Emilé, nonostante stesse per raggiungere l'altro di figlio. Ma che ci volete fare? I padri son fatti così, non sai mai cosa possa succedergli, cosa passi per la loro testa. 

Del resto dicono anche che si è padri una volta sola, non per forza quella del primogenito. Tutte le altre sono dei preservativi bucati o delle distrazioni.

James crebbe sano e forte, voti eccelsi in tutte le materie, bravo nello sport e portato per la fisica. All'università si laureò nei tempi giusti e col massimo dei voti. Era l'orgoglio della famiglia. E a conti fatti la famiglia erano soltanto Emilé ed Emily, nessun altro ormai. Si trasferì nella grande città, diceva per via del lavoro, ma nessuno gli credette mai, probabilmente fu solo per non avvertire il peso della provincia gravare sulle sue spalle.

Trascorse un'altra decade, in cui le visite di James si fecero via via sempre più rade. Emilé trascorreva le giornate in veranda, sorseggiava il vino rosso che lui stesso si era deciso a produrre. In realtà era aceto, ma Emily non ebbe mai il coraggio di dirglielo, preferì sempre sorseggiarlo insieme a lui, sorridendogli. Del resto si erano giurati eterno amore e fedeltà incondizionata quasi cinquant'anni prima, durante quella prima volta nella casa di campagna, non poteva certo infrangere il sogno della sua metà così, come se niente fosse. 

Una delle tante sere, non era diversa dalle altre, non c'era alcun presagio nell'aria, Emily si coricò al solito orario, insieme ad Emilé nel caldo letto matrimoniale, che tanti anni prima avevano voluto più grande del normale, per poter stare più comodi ed abbracciarsi a lungo, senza paura di cadere da un lato o dall'altro. Gli si avvicinò all'orecchio, gli sussurò dolci parole d'amore, lui si accorse piangeva mentre le pronunciava, ma fece finta di dormire, si sentì troppo mortificato per voltarsi e guardarla negli occhi. Solo dopo realizzò che anche lui, in realtà, stava piangendo. In cuor suo sapevo. La mattina seguente Emily non si svegliò, ma lui già lo sapeva. Non versò alcuna lacrima, aveva pianto tutta la notte, rimanendo sempre al suo fianco. James arrivò in ritardo anche al funerale, ma Emilé non gli disse nulla, poggiò una mano sulla sua spalla e si limitò a chinare il capo.

Andarono insieme a casa, lì Emilé lo invitò a bere insieme a lui, in ricordo di sua madre. Solo malto, ancora una volta, ma questa volta non si guardarono negli occhi. Aveva la consapevolezza suo figlio gli nascondesse qualcosa, qualcosa di cui probabilmente si vergognava mortalmente e avrebbe preferito portarsi il segreto nella tomba. Bevvero per tutta la notte, al mattino James dovette far ritorno in città.

Una sera, e qui arriviamo al momento in cui anche Emilé è costretto ad affrontare il trapasso, a chiamare James non fu suo padre, ma il dottore del paese. Erano trascorsi appena quattro anni dalla morte della madre e ora, quello che una volta era un ragazzo brillante, promettente e sincero, si vedeva costretto a dover perdere anche suo padre. James raggiunse la casa paterna alla stessa ora in cui sua madre era morta, questa volta non arrivò in ritardo. Emilé sperava di andarsene alla stessa ora della moglie, ma non ci fu verso, il cuore continuò a lottare di sua sponte. Se ne andò a mezzanotte, in silenzio. Chiuse i denti, sorrise a suo figlio e gli disse di sorridere alla vita e di esser forte, cattivo e spietato, di non piegarsi al volere di nessuno. Non seppe mai dell'omosessualità di James, il segreto il pargolo riuscì davvero a portarselo nella tomba. Non lo seppe mai nessuno.

Dicono nel momento del trapasso si riveda davanti agli occhi l'intera esistenza, Emilé invece si ritrovò ancora una volta in prima elementare. Sentì ancora una volta freddo, fin dentro le ossa, ma non se ne curò, non durante quell'ultima volta.

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