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Quando ero piccolo ricordo indossavo le Superga.
Ho sempre volute le Converse nere, invece mia madre mi ha sempre comprato le Superga, color vinaccia. Per correre nei campi, per inseguire un pallone o giocare con gli amici. Una tragedia con un solo morto, il mio ego.

Giuseppe, si chiama così, nel quartiere lo conoscono tutti, è appena entrato in bagno. È nudo, la finestra è aperta, chiunque potrebbe vederlo. Lui ne è consapevole, molto probabilmente. Tanto più che vive al piano terra e la strada, nonostante il caldo di agosto, è ancora intisa di ragazzini, famiglie felici e suore di ritorno al convento. Giuseppe si siede lentamente sul water, accarezza involontariamente con le natiche il marmo della tavoletta e si sente pienamente a suo agio, chiude gli occhi e inizia ad assaporare il momento, quella sorta di coito, quel senso di vuoto inatteso e piacevole. Un attimo ancora e potrà liberarsi di quel peso che sta portandosi dietro da un paio d'ore, da quando sua suocera, una delle tante signora Maria, ha preparato la lasagne con le polpette di carne formato mignon e tanto caciocavallo, nonostante le suppliche di Luisa: -Mamma fa caldo, la lasagna solo a Ferragosto!
E così Giuseppe è pronto a raggiungere la pace dei sensi, ma , per un attimo solo, apre gli occhi e si volta a guardare verso fuori.

Fuori c'è Gino, immigrato cinese di cinquant'anni che gestisce il classico ristorante etnico, in cui la cucina è figlia dell'olio di palma, del wok senza antiaderente e della salsa di soia che dicono sia fatta coi capelli tritati dei bambini o con i capelli dei bambini tritati, nessuno l'ha mai capito o ha mai voluto scoprirlo per davvero, in cui anche il tango è modulato sulle sonorità orientali, le bacchette i clienti le spezzano e le sotterrano in segno di stizza e di poca educazione. Un ristorante cinese, per dirla all'italiana.
Dicevamo, Gino è appena uscito fuori dal suo ristorante, una pausa di cinque minuti, una sigaretta di sfuggita e spera nessuno se ne esca con la solita battuta sulla sua somiglianza con Chow Yun-Fat, esclama ad alta voce: -Fuori si sta bene, fuori c'è fresco!
E mentre alza le braccia al cielo per raggiungere anche lui la sua momentanea pace dei sensi, abbassa lo sguardo e incrocia quello di Giuseppe.

È la storia di un attimo, di uno sguardo che non avrebbe avuto ragione di esistere, di una pace mancata, di una cagata come tante, molte altre. Giuseppe abbassa lentamente la serranda, continuando a defecare, spera di poter sprofondare anche lui all'interno del water. Gino sorride, una volta tanto sarà lui a poter raccontare un aneddoto divertente a sua figlia.

Quando ero piccolo, ricordo, ho sempre voluto le Converse e mia madre mi ha sempre comperato le Superga, avrei voluto una stella inscritta in un cerchio, un piccolo vory, per dirla con i russi, che corre e salta. Invece ero figlio di un fustino di Dash e delle cinquemila lire in più per prendere le scarpe in "omaggio".

Quando Giuseppe era piccolo non sognava una vita chiuso nel gabinetto, a scongiurare le emorroidi. Quando Gino era piccolo si chiamava Xuan, mai avrebbe pensato il suo hào sarebbe divenuto Gino.

Un attimo, un nome, una necessità fisiologica.

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